SOCIOLOGIA E SALUTE: IL SENSO CAPOVOLTO NELLA MEDICINA MODERNA. EPISTEMOLOGIA E PRASSI. Giuseppe Ricca, Paolo Patuelli
“La vita non è un semplice fatto di qualità che porta dalla materia fisico-chimica alla materia bio-chimica. La vita non è affatto una materia chimica particolarmente complicata. Non è un insieme empirico di azioni e reazioni biochimiche anche se piuttosto improbabili. La vita è invece una forma della materia che trascende tutto questo”. Giuliano Piazzi
“Per la medicina, il corpo di riferimento è il cadavere.In altre parole il cadavere è il limite ideale del corpo nel suo rapporto con il sistema della medicina. E’ esso che produce e riproduce la medicina nel suo pieno esercizio, sotto il segno della preservazione della vita”. Jean Baudrillard
Sociologia e salute: il senso capovolto nella medicina moderna. Epistemologia e prassi. (Giuseppe Ricca)
Introduzione
Prendo a prestito per questo saggio sul rapporto tra sociologia e salute il sottotitolo di un interessante testo di Giorgio Donini, Come si ascolta una conchiglia: il senso capovolto della medicina (Donini 2002) in quanto, in esso, sono raggruppati i significati della trattazione che andrò a sviluppare. La cornice sociologica entro la quale ascrivere la contemporaneità di una salute e di una medicina incontra nell’attuale condizione della contemporaneità il tema dell’eccesso. Già anticipato da Lacan, a riguardo del soggetto della perversione (Lacan 1979) l’eccesso è significato da stimoli contingenti che invadono ogni momento del quotidiano, spesso con la mediazione di una informazione invasiva per il godimento dell’Altro (Lacan 1999). Presumibilmente anche eccesso di pensieri, di pseudofilosofie e di paradigmi che si concretizzano nella ricerca spasmodica e frustrante di una forma, sia intrinsecamente gratificante che esteriormente confermata da dare alla propria vita. Forma che inevitabilmente sfugge, poiché il pieno, quando diventa troppo, tramuta nel suo opposto: il nulla, l’anomia. In ambito medico si ritrovano puntuali riscontri di queste affermazioni nella tendenza ossessiva alla classificazione di malati, alla catalogazione di malattie e alla reiterazione di parole vuote sulla sofferenza. Ridondanza di schemi e di protocolli. Eccesso di farmaci, di burocrazia, di settorializzazizone. Questo carattere sociologico della salute/malattia sfocia nella ripetizione/coazione, si consuma nel falso movimento. E giunge ad un passo dallo sfumare nella parodia, se non fosse per la spirale di disagio e sofferenza che puntualmente innesca. Questa esperienza quotidiana si implica perfettamente nell’ambito della complessità (Lacan 2005). Della contingenza (Luhmann 1992). Della generalizzazione (Luhmann 1992). In questa complessa e caotica cornice esistenziale la frustrazione dell’individuo occidentale contemporaneo nasce
dall’incapacità di una percezione unitaria, compiuta e soprattutto autonoma della propria vita. Utilizzando il pensiero teorico di Luhmann, sembra che quelli definiti come «sistemi di funzionamento della società» (Luhmann 1992), la medicina, la politica, le leggi…siano divenuti, con il dissolvimento della società stessa, uniformi ed autonome organizzazioni del sociale. Come il sociale, autonomi, emergenti, svincolati dalla vita; così come nel pensiero di Bauman il soggetto liquido della modernità liquida (Bauman 2003) si perde nella ricerca di senso e nella dispersione delle strutture: “..abbandonate ogni speranza di totalità futura come passata, voi che entrate nel mondo della modernità liquida..” (Bauman 2003). A ciò fanno eco osservazioni relative alla scomparsa di patologie importanti, veicolate da un miglior livello igienico in senso lato, e da una crescita di patologie e malesseri nuovi, peculiari di quest’epoca. Patologie cronico-degenerative sconosciute ai popoli primitivi che hanno sostituito o si sono affiancate a patologie acute e infettive classiche del passato e che lasciano intravedere una correlazione sia con agenti inquinanti prodotti dalla modernità, sia con un malessere, a livello simbolico, determinato appunto dall’eccesso.
Il senso capovolto
Nasce da una intuizione teorica di Piazzi (Piazzi 1984) nella ricerca di chiarezza circa il paradigma vita/non vita, dove la vita è armonica, equilibrata, globalmente completa in sé e per sé, e si differenzia solo in relazione alla non-vita da cui emerge e alla quale è destinata con la morte a fare ritorno. Tutte le altre differenze, descritte come interne alla vita, (differenze di status e ruolo sociali, quindi di denaro, potere, fascino, genere, razza, cultura..) sono solo acquisizioni culturali o strumentalizzazioni economico-politiche. Oggettivamente non esistono:”..c’è uno scarto assoluto che separa la vita dalla non-vita. E l’individuo trova (può trovare) qui il senso eventualmente superiore di ciò che lui è nel mondo. E non negli scarti successivi. O nelle successive finzioni del mondo….ma sono ormai convinto che sempre più solo qui ogni individuo può attualmente trovare, nella nostra realtà occidentale postmoderna, il proprio benessere psicofisico…la propria salute. E tutto questo non solo riguarda la medicina ma tocca il suo significato archetipo poiché…la distinzione vita/non-vita è anche qualcosa di materiale. E’ una distinzione biologica. Nella fecondazione, nel genoma una parte della materia fisico-chimica non è più tale. Diventa materia chiave. Diventa bios.” (Piazzi 1984).
Il senso capovolto della Diagnosi
Dice Piazzi: “..quando la singola vita riesce ad essere quello che è veramente è allora che le variabili biochimiche ne traggono beneficio. Realizzano il grado di informazione a loro più congeniale.. se invece la singola vita come forma ideale è impedita da fuori, sarà il fuori a decidere per la determinazione e il significato della malattia, della cura, della salute, della morte” (Piazzi 1984). Se cioè prevale nel cervello-mente l’Idea che-viene-da-fuori non si realizza/non si può realizzare il miglior livello di salute possibile e specifico per quella singola vita. Ogni vita è soggettiva, unica, irripetibile, è un’esperienza specifica e allora curare non è omologare in riferimento ad un modello di salute e di conformismo. La patologia non è allora perdita della capacità di agire sociale del soggetto. Patologia, unica, irripetibile, indipendente, diviene impedimento nella misura in cui non si riposiziona nel rapporto soggetto/società: “..ogni singola vita ha una sua propria salute, una sua propria malattia, una sua propria cura, una sua propria morte..”( Piazzi 1984) e quindi la salute individuale è un’esperienza che nasce e si conclude solo all’interno e solo in funzione del singolo individuo.
Il senso capovolto della Terapia
Dice Piazzi: “..la vita non è un semplice fatto di qualità che porta dalla materia fisicochimica alla materia bio-chimica. La vita non è affatto una materia chimica particolarmente complicata…”( Piazzi 1984) la vita è materia che trascende se stessa. E’ materia che pur rimanendo materia si fa idea. Allora la vita diventa un’esperienza straordinaria. L’evento più improbabile. Una materia che si fa realtà astratta pur rimando materia vuol dire: ciò che viene concepito nella fecondazione, che nasce che cresce, soffre, si ammala, guarisce e muore, sanguina e si cicatrizza…non sono pezzi di materia uniti empiricamente fra loro, ma proprio la vita in quanto idea, gestalt, realtà astratta. Riparare una catena biochimica o aggiustare un pezzo di materia organica, non equivale a curare la vita. e poiché ogni medico prima di essere specialista, o abile nell’uso di uno strumento o nell’applicazione di una procedura, o infarcito di nozioni scientifiche, è appunto un medico, e di solito, con lo scorrere della sua vita, diventa sempre più un medico, ogni atto che esprime è terapeutico per la vita nella misura in cui tende a curare l’astratto, che è la vita stessa. Il medico è terapeutico nella misura in cui il suo atto è teso, comunque e da sempre, a curare l’anima.
Il senso capovolto della Prevenzione
Dice Piazzi: “..il significato vero e più intenso della vita consiste nel fatto che la vita non è altro che avversione nei riguardi della propria morte. La vita, sempre, anche nelle condizioni più normali, è il valore più grande. Ma è il valore più grande proprio perché la vita non è altro che l’opposizione ad una morte non scritta… non prevista da codici o da leggi..”( Piazzi 1984). La distinzione che separa la vita dalla morte non è altro che un significante. E’ l’inizio di una cultura, di un linguaggio, di un certo modo di pensare dell’io. Forse un’antropologia. Se questo è il vero senso, il medico e la medicina non possono non accompagnare la riflessione in ogni paziente incontrato, spesso per tramite della malattia, sul valore più grande: la vita stessa. In modo che i pazienti possano sempre disporre di questa antropologia, utile per risolvere i problemi vitali. Cercando di evitare che questo sapere individuale, per imporsi, debba attendere situazioni estreme. O il momento ultimo. Dove la verità sembra essere così vicina, ma senza ritorno.
Il paradigma della medicina: la Nascita della Clinica tra “il Normale e il Patologico”
“Verso la metà del XVIII secolo, Pomme curò e guarì un’isterica facendole prendere “dalle dieci alle dodici ore al giorno di bagni, durante dieci interi mesi”. Al termine di questa cura contro il disseccamento del sistema nervoso e il calore che l’alimentava, Pomme vide che “delle parti membranose simili a pezzi di pergamena bagnata… si staccavano con leggeri dolori e uscivano giornalmente con le orine, mentre l’uretere dalla parte destra si spogliava a sua volta e usciva tutto intero per lo stesso condotto”. Parimenti “gli intestini, in altro tempo, si spogliarono della loro tunica interna e vedemmo uscire dal retto. L’esofago, la trachea e la lingua s’erano a loro volta spogliati; e la malata aveva espulso diversi pezzi o col vomito o colla espettorazione” (Foucault 1969).
Nascita della clinica si apre con questa descrizione, immediata, e senza nulla che introduca la crudezza corporea – un po’ raccapricciante – che la sua immagine evoca. Il lettore viene colto alla sprovvista, e la prima impressione che riceve è forse un senso di smarrimento, l’incapacità perfino di comprendere una simile descrizione, che un tempo
veniva invece accettata come resoconto oggettivo. Il senso della distanza tra noi e la nostra scienza medica da una parte, e questa fantasiosa rappresentazione dall’altra, emerge qui con una certa forza. Una distanza caricata naturalmente di valore: la presunta oggettività della scienza contemporanea, raggiunta dopo un lungo cammino evolutivo fatto di progressive conquiste, contro l’ingenuità di una conoscenza empirica ancora da purificare da ogni sorta di errore. E’ proprio attraverso questa distanza che Foucault può utilizzare quelle strategie metodologiche – che ha sviluppato a partire dalla lezione di Canguilhem (Canguilhem 1975) -, per mettere in discussione l’edificio su cui poggia il nostro sapere. Distanza critica dalla verità e dal significato, che lascia emergere la struttura (Foucault 1969) che presiede alla produzione, al funzionamento, alla circolazione dei discorsi che ci attraversano; quella struttura silenziosa che organizza le pratiche, l’esperienza della percezione (lo sguardo), gli oggetti da conoscere e i soggetti della conoscenza. L’archeologia della medicina porterà dunque alla luce le fratture, i complicati ed eterogenei percorsi che i discorsi hanno tracciato, la filiazione dei concetti che vanno a formulare i problemi, le trasformazioni dello sguardo e della percezione, le modalità con cui questo sguardo ha plasmato il suo oggetto, le forme che la verità ha di volta in volta fatto proprie. Foucault smonta l’interpretazione ufficiale della medicina moderna che vede in Bichat (Foucault 1969) un punto di svolta in senso evolutivo: con lui la medicina abbandonerebbe le superstizioni, si scrollerebbe di dosso gli innumerevoli errori che fino ad allora avevano incrostato il suo sguardo, per giungere finalmente ad una conoscenza oggettiva del corpo e della malattia. L’anatomia patologica di Bichat avrebbe svelato finalmente la verità del corpo, la cui malattia si situa e si esaurisce nello spazio concreto di questo stesso corpo, nella lesione dei suoi tessuti. Fine dunque di una medicina che ruotava intorno alle classificazioni per classi e famiglie di tutto il regno della natura, che intrecciava continuamente parentele tra il corpo e il cosmo, che ordinava tutto il visibile entro una quadrettatura coerente e trasparente (Foucault 1969): Si ha l’impressione che per la prima volta dopo millenni, liberi finalmente da teorie e da chimere, i medici abbiano acconsentito ad affrontare, di per se stesso e nella purezza di uno sguardo non prevenuto, l’oggetto della loro esperienza. Ma occorre rovesciare l’analisi: sono le forme di visibilità ad essere cambiate; il nuovo spirito medico, di cui senza dubbio Bichat reca la prima testimonianza assolutamente coerente, non è da iscrivere nell’ordine delle purificazioni psicologiche ed epistemologiche; esso non è altro che una riorganizzazione sintattica della malattia in cui i limiti del visibile e dell’invisibile seguono un nuovo disegno. Questa riorganizzazione ha delineato nuove esistenze, ha prodotto nuove configurazioni, tra le quali spiccano quelle relative al corpo: un corpo interamente spazializzato; una malattia che si materializza e diventa lesione di tessuti organici, abbandonando così il suo carattere di essenza; un nuovo concetto di vita e di morte; nuove forme di classificazione che separano l’organico dall’inorganico; un nuovo linguaggio. La clinica ci mostra una nuova distribuzione degli elementi nello spazio corporeo (per es. l’isolamento, all’interno dell’organismo, dei tessuti); una riorganizzazione delle componenti che costituiscono il fenomeno patologico (delle sedi anatomiche si sostituiscono a dei sintomi organizzati secondo il modello botanico). Intorno a questi nuclei si costituisce tutto un sistema di pratiche, oltre che di discorsi, che costituisce il metodo anatomico-clinico, ovvero la condizione storica di quella medicina che noi riceviamo come positiva. E’ importante sottolineare come Foucault respinga una concezione riduttiva del linguaggio – e quindi dei discorsi – semplicemente come insieme di segni, in termini cioè di referenti e di parole che ricalcano, in maniera neutra, gli oggetti; segni che rinviano a contenuti e
rappresentazioni che esistono già, prima ancora di essere nominate. Per Foucault i discorsi sono piuttosto delle pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano (Foucault 1969), sono complessi macchinari capaci di escludere dalla loro trama tutto ciò che non sono in grado di assimilare; sono da considerare nell’ordine dell’evento (événement) (Foucault 1969), quindi non, ermeneuticamente, appartenenti al campo del testuale, della parola ridotta a puro segno, che riceve senso e significato a partire da qualcosa che le è esterno. Foucault parla piuttosto di enunciato, che include in sé, nella forma della compresenza e della simultaneità, chi parla, il testo che parla, e ciò di cui si parla, in un immanenza che non necessita di alcun rimando a referenti originari (Foucaul 1969). Un esempio interessante, che ci introduce un po’ più nel cuore del nostro oggetto di studio, ci è fornito ancora una volta da un’operazione di smontaggio, da parte di Foucault, di una ricostruzione storica che tende a dare alla scienza una conformazione lineare ed una direzione evolutiva. L’anatomia avrebbe cioè potuto pienamente svilupparsi, in seno alla scienza medica, solo dopo che l’interdetto religioso sui cadaveri e sulla sacralità della morte fossero finalmente caduti, dopo l’avvento rischiaratore dell’Illuminismo: Per centocinquant’anni si è ripetuta la stessa spiegazione: la medicina ha potuto avere accesso a quel che la fondava scientificamente solo aggirando, con lentezza e prudenza, l’ostacolo maggiore, quello che la religione, la morale e ottusi pregiudizi opponevano all’apertura dei cadaveri. L’anatomia patologica non ha vissuto che d’una vita di penombra, alle frontiere dell’interdetto, grazie al coraggio dei saperi clandestini che sopportano la maledizione (…). Poi vennero i Lumi; la morte ebbe diritto alla chiarezza e divenne per lo spirito filosofico oggetto e fonte di sapere: “Quando la filosofia introdusse la sua fiaccola tra i popoli civilizzati, fu infine consentito di portare uno sguardo scrutatore sui resti inanimati del corpo umano, e queste spoglie, un tempo vile preda dei vermi, divennero fonte feconda delle più utili verità” (Foucault 1969). In realtà, sostiene Foucault, già dalla metà del ‘700, non si ponevano grossi ostacoli alla dissezione dei cadaveri; si trattava al contrario di una pratica abbastanza diffusa, anche se non costituiva in alcun modo il supporto della medicina; lo dimostra il fatto che Morgagni (24), ufficialmente considerato il fondatore dell’anatomia patologica, pubblica la sua principale opera nel 1760. Tuttavia è soltanto a partire da Bichat, circa quarant’anni più tardi, che la lezione di Morgagni potrà essere ripresa. Questo intervallo di tempo coincide con un periodo di riassestamento e mutamento del metodo clinico, che costituisce quell’esperienza su cui nasce la scienza moderna. Prima di questa riorganizzazione della pratica e del sapere clinico, lo sguardo medico era tutto concentrato sulla lettura dei sintomi, sulle loro frequenze, cronologie e parentele, sulla decifrazione del linguaggio della malattia, in una trasparenza che svelava tutto l’essere della malattia attraverso lo sguardo del medico che si posa sul malato ( e non ancora sul corpo, o ancora meglio sul cadavere). Un tale tipo di sguardo era del tutto estraneo ad una figura del sapere quale è l’anatomia patologica, a questa investigazione dei corpi muti, delle masse opache, dei volumi segreti celati nelle profondità dei corpi. Proprio un pensiero clinico ha impedito per quarant’anni alla medicina d’intendere la lezione di Morgagni. Non si tratta di un conflitto tra un giovane sapere e vecchie credenze, ma tra due figure del sapere. Occorrerà un muto riassetto perché, dall’interno della clinica, si delinei e s’imponga il richiamo all’anatomia patologica (Foucault 1969). Più che il processo di assorbimento, da parte del modello epistemologico dominante in una determinata epoca, di tutti gli oggetti e i discorsi che proliferano, Foucault prende in
considerazione il meccanismo solo apparentemente opposto, quello di esclusione. Porta alla luce tutta una teratologia (Foucault 1969) del sapere, che già nello studio sulla follia aveva mostrato tutta la sua fecondità: per comprendere cosa la nostra società intende per normalità occorre guardare a cosa essa esclude da sé per costituirsi come normativa, e non tanto assumere il punto di vista della sua razionalità interna; occorre cioè rovesciare la prospettiva dell’analisi. Così, ci accorgiamo che, per appartenere ad una disciplina (Foucault 1969), una proposizione deve rispondere a determinate condizioni, deve riuscire ad inscriversi ad un certo orizzonte teorico, deve utilizzare certi strumenti concettuali e fondamenti teorici – che assumono il valore di norma -, deve prendere in considerazione un certo campo di oggetti e non altri, e così via. Non si tratta semplicemente di dire il vero, ma di entrare nel vero (Foucault 1969), in quell’orizzonte teorico che una determinata disciplina storicamente definisce come vero, reale, oggettivo. Se sono questi discorsi-pratiche a formare l’oggetto di cui parlano (Foault 1969) ; se è lo sguardo del medico – con tutta la struttura istituzionale ed epistemica (Foucault 1969) che gli sta dietro – a dire la verità del corpo e della malattia; se questo “oggetto” che chiamiamo corpo, pervaso da processi detti patologici o normali, penetrato dalla vita e dalla morte, assume di volta in volta, storicamente, una differente configurazione, allora, invece di porci la domanda “che cos’è questo corpo?” – domanda che Foucault considererebbe impropria e anacronistica – , occorre tentare di osservare più da vicino come questi discorsi lo attraversano, il percorso tortuoso che compiono e da dove provengono. In un certo senso, gli enunciati che “parlano” del corpo sono tutto ciò che il corpo è in una determinata epoca; tutto quello che si vuole ritrovare al di là di questa superficie dei discorsi è illusione ermeneutica.Lo studio sulla nascita della clinica si conclude con la tesi secondo cui, così come la ragione si innesta sullo scarto della follia, allo stesso modo, le radici su cui è cresciuta la scienza medico-biologica – la scienza e la conoscenza del corpo e della vita – quale noi oggi conosciamo e pratichiamo, sono da collocare nell’anatomia patologica, nel momento dunque della morte. La malattia, ma anche la vita, trovano la loro visibilità e dicibilità scientifica, la loro verità, nella violenza del cadavere dissezionato, nello spessore dell’atlante anatomico, attraverso la prospettiva del corpo morto. La leggibilità dell’individuo come oggetto del sapere positivo, la manifestazione della sua verità – della malattia, della sua fisiologia, del suo organismo – sono stati possibili solo dal momento in cui la morte è entrata nell’esperienza medica come oggetto dell’analisi. Aprite qualche cadavere – diceva Bichat – vedrete tosto scomparire l’oscurità che la sola osservazione non aveva potuto dissipare (Foucault 1969). Per tutto il XVIII secolo e per tutta una tradizione già familiare al Rinascimento, la conoscenza della vita si fondava di diritto sull’essenza del vivente, poiché non ne era, essa stessa, che una manifestazione. Ecco perché non si pensava mai la malattia se non a partire dal vivente, o dai suoi modelli (meccanici) o dai suoi costituenti (umorali, chimici); il vitalismo e l’antivitalismo nascevano entrambi da questa anteriorità della vita nell’esperienza della malattia. Con Bichat, la conoscenza della vita trova la sua origine nella distruzione della vita, e nel suo estremo opposto; solo alla morte la malattia e la vita dicono la loro verità (Foucault 1969). A questo proposito, risulta interessante stabilire un parallelismo, o meglio, un confronto tra Foucault e Canguilhem. Nel suo celebre studio sui concetti di normale e patologico nella scienza medica, Canguilhem sottolinea ripetutamente come la conoscenza della fisiologia sia stata decifrabile a partire dalla patologia, dalla malattia dunque, dall’ostacolo, dall’infrazione ad una norma: Pensiamo con Leriche che la sanità è la vita
nel silenzio degli organi, che quindi il normale biologico è rivelato, come abbiamo già detto, solo dalle infrazioni alla norma e che esiste una coscienza concreta o scientifica della vita solo attraverso la malattia (Canguilhem 1975). La vita è diventata storicamente l’oggetto di una conoscenza scientifica, solo passando attraverso l’esperienza della malattia e della morte. Tuttavia, quello che sembrerebbe un punto di sintonia tra i due autori, si rivela essere, in questa fase della ricerca foucaultiana, piuttosto un punto di divergenza sostanziale: Canguilhem fa continuamente riferimento ad una dimensione del vissuto, che lo avvicina a posizioni decisamente fenomenologiche (Canguilhem 1975), posizioni da cui Foucault si è ormai distaccato. Naissance de la clinique e Les mots et les choses – nonché Archéologie du savoir – sono infatti le opere in cui si avverte maggiormente la forte influenza del movimento strutturalista. Canguilhem sembra attribuire alla malattia una sorta di profondità, un significato carico di spessore, ed è l’individuo malato, nel suo essere soggetto vivente e corporeo, che dà ad essa significato – e quindi “essere” -, attraverso la propria personale esperienza vissuta della malattia, del limite, dello scacco, del depotenziamento delle sue capacità e possibilità operative. L’ostacolo a partire dal quale è nata la conoscenza medica è per lui la malattia vissuta dal malato, la malattia-dolore: La malattia è un comportamento di valore negativo per un essere vivente individuale, concreto, in rapporto di attività polarizzata con il suo ambiente. Ora noi pensiamo che non vi è nulla scienza che non sia prima apparso nella coscienza e che, in particolare, nel caso di cui ci stiamo occupando, è il punto di vista del malato che è in fondo quello vero (Canguilhem 1975). Per Canguilhem, i discorsi e le pratiche sono possibili solo a partire da un soggetto incorporato, empirico, vivente nel suo rapporto col mondo. La prospettiva di analisi di Foucault, invece, che pure ha abbracciato in passato posizioni simili a queste, si mantiene ora sempre al di là di questo spessore fenomenologico. Foucault non si pone mai il quesito sull’individuo, sul soggetto, anzi, questo scompare completamente, si dissolve nella trama dei discorsi e delle pratiche; diventa un loro effetto di superficie. Il problema del soggetto che attraversa tutta la produzione di Foucault costituisce uno dei noccioli più densi del suo pensiero e di tutta la contemporaneità, così, come in ultima analisi, nell’opera di Foucault, acquisisce interesse ciò che emerge attorno ai discorsi medico-scientifici, per evidenziare le innumerevoli involuzioni che il corpo subisce, come esso emerge a seconda dei diversi campi di visibilità, delle strutture percettive che storicamente si incrociano e si succedono. Ed il presupposto da cui partire è, ancora una volta, l’arbitrarietà di ogni sistema di organizzazione del reale: “Per i nostri occhi ormai frusti, il corpo umano definisce, per diritto naturale, lo spazio d’origine e di ripartizione della malattia: spazio le cui linee, i volumi, le superfici e i cammini sono fissati, secondo una geometria ormai familiare, dall’atlante anatomico. Tuttavia questo ordine del corpo solido e visibile non è per la medicina che uno dei tanti modi di spazializzare la malattia. Né il primo senza dubbio, né il più fondamentale. Ci sono distribuzioni del male diverse e più originarie” (Foucault 1969).
Teoria sociologica della cura: il “rimanere nel sociale” della medicina
Può la medicina “rimanere nel sociale”? Può la medicina costituirsi come un vero e proprio soggetto sociale? La risposta viene evidenziata da Paola Maria Fiocco che, in senso affermativo risponde: solo mostrando queste connessioni, tutti gli aspetti della salute nel sociale potranno iniziare ad avere la corretta posizione nella vita della collettività e dei cittadini (Fiocco 2004). La medicina di Ippocrate, ad esempio, è
correlata ad una particolare situazione sociale, quella ionica, con città fiorenti e attive; la situazione positiva si riflette nella convinzione che il principale fattore patologico sia il rapporto uomo-ambiente: non solo l’ambiente naturale ma anche quello sociale e politico possono causare la perdita della salute. La salute è uno strumento di base per una costruzione sociale eccellente. Pertanto, il rimanere in salute per gli attori sociali ha comportato la nascita di una cultura materiale: da questa cultura si è sviluppata la strada alle tecniche di guarigione delle malattie e poi alle tecniche strumentali mediche. La ricerca cognitiva medica è una sorta di scenario compresente nelle diverse fastidi crescita del processo. La società, quindi, è una realtà che, come forma organizzata, emerge dai bisogni primari di benessere, produce risposte fondate sullo scambio e sulla reciprocità e mette in relazione i corpi: dalle relazioni tra questi corpi si fanno strada tanto il linguaggio e la mente quanto la cultura simbolica e riflessiva. Il rimanere in salute, quando le società umane iniziano ad assurgere ad un grado elevato di complessità, è non solo il bisogno primario dei singoli individui, ma lo diventa per tutto il sistema ed è questo passaggio culturale che rappresenta il rimanere nel sociale della medicina. Essere sociali permette di essere in salute ed essere in salute costruisce le società.. Molteplici realizzazioni di salute e di società dipendono dall’adeguata percezione di questo rapporto tra salute e collettività sociale e, soprattutto oggi, ne dipende il lavoro della sociologia della salute. Il sociale quindi necessita della salute quasi più che della politica e del diritto, ne ha bisogno per continuare a mantenere la vita viva: la vita è la ragione cogente delle società umane. Ciascuna forma organizzativa a partire dalla più comune, la famiglia, si è manifestata e formata a scopo protettivo e cautelativo. Il diritto stesso e i vincoli di natura legislativa possono essere interpretati come una forma di protezione e di garanzia: la cultura simbolica mira a mantenere e tramandare tutto intero il patrimonio di conoscenze che l’umanità ha prodotto e accumulato, vivendo ed interagendo con l’ambiente. Il significato centrale di queste operazioni, non è il riprodursi per se stesse, ma il riprodursi come elementi di mantenimento in vita della vita. Si può giungere facilmente a comprendere questa semplice evidenza con la constatazione che la vita si è costruita con lunghi percorsi e costi notevoli e diversificati. La salute si determina come una garanzia di funzionamento dei meccanismi naturali che producono la vita e la proiettano in una regione di artificialità: le società e le culture. Queste artificialità si evidenziano come un secondo livello della vita e possono essere viste come gusci protettivi e di controllo. Comprendere questo punto di partenza può sembrare difficile dato che siamo abituati a cogliere gli obiettivi dello sviluppo non sull’intero progetto, che la società rappresenta, ma su ciascuno dei suoi elementi. In questa parcellizzazione la salute ha perso tono e mordente come elemento di base del sociale. Del resto, proprio come prova della reificazione della corporeità e delle relazioni sociali mistificate va ricordato che il novecento è stato il secolo in cui, dopo la seconda guerra mondiale, il corpo e la salute hanno preso forma come soggetti e progetti. Se la salute di qualcuno era basata sulla “morte” o “costrizione” di qualcun altro i progetti di salute agivano per un interesse di parte: per un etnia o per un sesso. La volontà di fare della salute un diritto va ascritta alla seconda metà del Novecento, ma se un diritto si formula senza consapevolezza della sua “natura” di base la battaglia è perduta in partenza. Il diritto non garantisce che vi sia percezione del “bene salute” come una piattaforma basilare, come l’origine di ogni forma organizzata di vita e di protezione. Per giungere a questo risultato è necessario uno studio che, avendo per soggetti la salute e la medicina, possa rendere conto della via lunghissima che si rese necessaria per mettere a fuoco la co-costruttività tra i fondamenti fisici delle società umane e gli aspetti organizzativi. Parlare del fondamento fisico non significa trascurare lo sviluppo della ragione e delle dimensioni politiche e giuridiche del sociale: significa costruire alcune priorità e ridare al corpo ed alla salute il significato che meritano come elementi fondativi e regolativi. Su questa matrice primaria si innestano il benessere della mente e la qualità della vita. I viventi sono dotati di un comportamento reattivo che dipende anche dalla chimica dei composti di cui sono formati. La composizione chimica dei viventi e la loro morfologia comportano un flusso continuo di materiali e di energia di informazione. Tali tre elementi modellano le architetture viventi nella conformazione interna ed esterna e determinano la formazione di uno strumento di controllo che si realizza nel sistema nervoso centrale e periferico, grazie al quale tessuti ed apparati si muovono nell’ambiente e interagiscono e si riproducono. Presto o tardi la fragilità dei viventi appare chiara: alcune malattie emergono proprio dall’errore genetico che determina sovente alterazioni nelle strutture fisiche e psichiche, altre derivano dall’interazione ambientale ed intersoggettiva. Nella convinzione che sia importante recuperare il percorso della salute e della medicina proprio per arrivare a vedere il lato strumentale è sembrato opportuno dare la parola ad una nascita metaforizzata della medicina, come primo momento di osservazione e di studio del corpo. Passare all’applicazione di queste prime osservazioni alle malattie non fu immediato e passare dalle malattie alla cura di un paziente, all’interno di un rapporto, fu un processo ancora più lento e scarsamente istituzionalizzato per molto tempo. I pazienti curati all’interno di un rapporto furono i più ricchi e i più potenti, per tutti gli altri il guaritore era un viandante che offriva le sue cure all’interno di uno schema di mobilità: il viaggio. Mancavano anche i centri di raccolta dei malati. Queste lacune indicano il grande sforzo sia per focalizzare le esigenze della base fisica della società sia quelle per mantenerla adeguatamente in equilibrio e forse indicano anche come le società si servono massicciamente, in prima battuta, delle risorse corporee rispetto a quelle razionali. E’ una chiara scissione tra le due dimensioni; ai corpi il ruolo di carburante ed alla razionalità il ruolo di pilota del sociale. Una macchina defatigante, alienante e faticosamente lenta. Tali concetti prendono le mosse dal racconto mitico, valutandolo come prima fonte di informazioni e tendenze riguardanti le società antiche e le loro azioni nei confronti del corpo, della salute, della razionalità nascente. Da quelle narrazioni mitiche, si può ricavare un quadro della situazione umana, della paura della morte e della malattia che furono una condizione oggettiva dell’umanità agli albori della civiltà occidentale. Oggi i soggetti non sono più consapevoli degli effetti stressanti di quello stato iniziale dell’esistenza. Si incorre quindi in continui anacronismi mentali che non consentono aperture alla comprensione dei punti sociali di partenza dello sviluppo delle tecniche mediche per meglio identificarli nel presente. La necessità di costruire questa base di informazioni è determinata dal fatto che si sono cancellati quasi completamente dalla nostra memoria storica il significato, il peso psicologico dell’esserci (dasein), del trovarsi gettati, sulla faccia della terra senza conoscenze, tecnologie ed adeguate risposte. La salute, oggi, necessità di un quadro di connessioni che indichi la premessa iniziale e l’evoluzione delle istituzioni che perseguono come obiettivo la salute ed è inoltre necessaria una designazione degli attori che l’hanno resa specifica. In ogni caso oggi la salute è al centro di innumerevoli azioni e si considera come obiettivo principale di categorie centrali di attori sociali, ma quale percorso ha avuto ogni semplice gesto che noi oggi compiamo in sequenza quasi acritica? Andare dal medico di base, mostrargli la tessera sanitaria, ricevere una ricetta, prendere i farmaci in farmacia, dopo aver pagato o meno un ticket sono azioni che si verificano attingendo ad una storia. La medicina che conosciamo oggi in veste tutoriale e accompagnamento obbligato in tutte le fasi della nostra vita, come ha avuto il compito e poi la delega di occuparsi dei cittadini e come si è creata uno spazio nell’arena sociale? Mettere a fuoco i processi che hanno reso importante e poi vitale un corpo di conoscenze e saperi significa osservare con una forte lente d’ingrandimento alcuni eventi che affiorano dalla memoria e questo va fatto allo scopo di non creare una sociologia della salute a due dimensioni, vale a dire senza la profondità della storia, inoltre significa acquistare consapevolezza dei processi che si impostano nel passato remoto e che mantengono la loro forma sino all’oggi. Le azioni che si sono innescate allora e lavorano ancora per il presente spesso sono come reperti archeologici di cui dobbiamo recuperare la storia ed il significato. Vi sono studi che già percorrono queste direzioni e restituiscono alla classicità greca ed ellenistica alcuni meriti. Scrive Lucio Russo: tra le scuole mediche della Grecia classica la più notevole fu quella fondata nel V secolo da Ippocrate di Cos, che svolse in particolare un importante ruolo nel liberare la medicina dalle pratiche magico-religiose e nel fondare la deontologia medica. Il pensiero ippocratico restava però nell’ambito della tèchne, cioè della pratica professionale medica, che anzi sostanzialmente fondava, senza generare scienze autonome. La novità essenziale della medicina ellenistica fu la creazione, nella prima metà del III secolo a.C., dell’anatomia e della fisiologia basate sulla dissezione del corpo umano, ad opera di Erofilo di Calcedonia, attivo ad Alessandria, e di Erasistrato di Ceo. Non importa ora, più di tanto, l’ascrivere ai Greci (o a chi altro) la nascita delle suddette competenze, piuttosto è importante segnalare l’inizio di un percorso indicato come cognitivo per la conoscenza della salute che, non ha bisogno di costruire una storia sistematica delle azioni di cura per la salute, ma ha la necessità di delineare quadri sintetici che, qualora interconnessi, diano chiarezza al percorso strutturale affrontato nel sociale dalle scienze della salute.
Il SerT: tra potere medico ed uso della parola nella cura del tossicodipendente. Un’analisi socio-clinica (Paolo Patuelli)
Quando, nel 1996, iniziai la mia ricerca sulla percezione della cura in un servizio per le tossicodipendenze (SerT), l’idea era quella di indagare quegli spazi dove il malato, attendendo con altri l’assunzione del farmaco e/o il colloquio con il medico, interagisce con altri pazienti (Patuelli 1998). Nella sala di attesa di un ambulatorio si possono osservare situazioni ed ascoltare dialoghi molto interessanti: si tratta spesso di quella parte di vissuto del paziente che, per necessità organizzative e burocratiche, più che cliniche, non viene condivisa e conosciuta dall’apparato di cura. L’osservazione dentro un luogo di attesa (in antropologia un non-luogo; Augè 1993) di atteggiamenti, comportamenti e l’ascolto dei dialoghi che in esso avvengono, avrebbe potuto aiutare l’équipe di quel SerT ad identificare e definire la compliance dei pazienti con il servizio (si definisce compliance del paziente il grado di adesione del paziente stesso a tutte le prescrizioni del suo medico e la sua volontà di collaborazione con le strutture sanitarie). Nella ricerca emergeva come il tempo dell’attesa costringesse il tossicodipendente a riflettere e discutere “in diretta” con i presenti la propria condizione di utente del SerT, condividendo i sintomi e la propria sofferenza ed organizzando su di essi un discorso da portare al medico o a chi, in quella particolare situazione, si sarebbe occupato dell’azione di cura. Lo spazio e il tempo dell’attesa marcano i confini dell’incontro con la cura e ne disegnano il carattere dialogico e narrativo. Allo stesso tempo, nell’incontro sempre problematico e mai risolto, tra apparato di cura e paziente si nutre, vive e si trasforma un servizio per le tossicodipendenze. Il tentativo dell’indagine fu allora quello di aprire uno squarcio sul vissuto del malato osservato nei confini tra la vita fuori e dentro i luoghi della cura. I risultati furono utilizzati dall’équipe di quel SerT come stimolo alla discussione sulle differenze nella percezione di sé dei pazienti e sul diverso livello di adesione alla cura. Una discussione che poteva tradursi nel marcare, attraverso il gesto clinico-diagnostico, la distinzione tra malati di tossicodipendenza, consumatori di droghe e forzati della cura (costretti al contatto con il SerT per questioni legali). Negli anni successivi ebbi l’opportunità di entrare operativamente in un’équipe di lavoro presso un SerT. Le riflessioni che seguono derivano da un’esperienza vissuta attraverso l’ottica riflessiva dell’osservatore implicato (Lapassade 2009). Prima di addentrarci in profondità nella riflessione descriviamo sinteticamente come funziona un SerT.
Il SerT
La complessità, o per alcuni autori l’inconsistenza (Szaz 1991), della malattiatossicodipendenza, scatena da decenni dibattiti e polemiche intra ed inter-disciplinari coinvolgendo: medici, psicologi, sociologi e altri professionisti del lavoro sociale e sanitario. Non da molti anni sembra raggiunto un accordo tra tutti i contendenti sulla necessità di intervenire in modo integrato muovendosi nei confini tracciati da medicina ed intervento psico-sociale. Gli stessi SerT, nati nel 1990 con il D.L. 309/90, sono il prodotto di tale accordo e sposano, almeno in linea teorica, l’approccio multidisciplinare alla cura della tossicodipendenza. Questa patologia viene, da allora, intesa come: “problema complesso che si presta non ad una soluzione, ma a delle soluzioni” (Giannotti e Cortesi 1994). Questi servizi hanno il compito di seguire passo a passo il percorso che conduce il soggetto fuori dalla sua condizione di tossicodipendenza, per cui affrontano tutte le fasi del trattamento: disintossicazione, disassuefazione e reinserimento sociale. Oltre a questo si occupano della prevenzione delle ricadute. All’interno dei SerT lavorano équipe di professionisti, diversamente calibrate, che includono: psicologi, educatori, assistenti sociali, infermieri e medici, con un predominio numerico di questi ultimi ai quali spettano sempre le responsabilità direttive. Gli operatori, che in particolare si occupano della salute del tossicodipendente, mettono in pratica nel Sert diversi moduli terapeutici. I trattamenti generalmente impiegati sono: la terapia farmacologica (che prevede l’uso di farmaci agonisti ed antagonisti delle sostanze stupefacenti), il supporto psicologico e l’intervento socio-educativo. Quest’ultimo si traduce in pratica nell’inserimento dell’utente in strutture riabilitative, come le Comunità Terapeutiche, le quali operano in regime di convenzione con il servizio; in alternativa si attivano progetti territoriali dove il supporto al paziente prevede incontri periodici con gli operatori, una terapia farmacologica (metadone) monitorata costantemente dal medico e aiuti di tipo economico, se ritenuti necessari (sussidi e/o inserimenti in progetti di Borsa Lavoro). Non esiste, sino ad oggi, uno schema uguale per tutti che ci indichi quale sia il percorso seguito da un utente nel momento in cui entra in contatto con un Sert. In questo senso, molto dipende dalle risorse umane e professionali di cui il servizio dispone. Possiamo comunque elencare, in modo generico, le fasi del percorso che un utente del servizio compie al suo interno:
1) Accoglienza dell’utente che accede al servizio volontariamente o su segnalazione di altri servizi (o delle autorità di Pubblica Sicurezza). In genere è l’assistente sociale o l’educatore, affiancato da un operatore sanitario (infermiere), che si occupa dell’accoglienza, ; 2) Invio al medico o allo psicologo per la valutazione diagnostica. All’invio segue lo studio del caso da parte di un’équipe composta da: medico, psicologo, assistente sociale ed educatore (il caso può essere discusso in sede di équipe allargata a tutto il servizio o in occasione di supervisione); 3) Avvio percorso di disassuefazione o disintossicazione. Questo può avvenire presso l’ambulatorio Sert, a volte viene affidata la gestione del farmaco al paziente stesso o a familiari (in passato la terapia poteva essere somministrata tramite visite domiciliari degli operatori del Sert); 4) Invio in Comunità Terapeutica (in alternativa vedi punto 5) 5) Intervento continuativo del servizio sul territorio con: a) controllo/intervento medico; b) intervento socio-riabilitativo dell’assistente sociale e/o educatore; c) eventuale intervento psicoterapeutico (individuale, familiare o di gruppo). Sulla carta si presenta come un approccio: 1) globale: che tiene conto di ogni esigenza dell’utente e 2) flessibile: che sa differenziarsi a seconda del tipo di problematica che si trova ad affrontare. In altre parole, un approccio che ben aderisce al carattere invasivo, vischioso e totalizzante di questa patologia che l’OMS definisce: cronico-recidivante.
Potere medico e tossicodipendenza
Lo sguardo dell’osservatore implicato permette di circoscrivere la microfisica del potere che muove la vita di un SerT la quale, prescindendo dalle gerarchie descritte nel suo organigramma, si disegna nelle pieghe delle relazioni quotidiane tra personale medico e psico-sociale. Il SerT è un servizio sanitario, quindi è la medicina, sulla carta, a dettare le regole; al potere medico si affianca la presa in carico psico sociale del tossicodipendente. Si tratta di un intervento che, affiancando una terapia centrata sul farmaco (il metadone), utilizza in buona parte lo strumento della parola per agganciare e fidelizzare il paziente al percorso terapeutico. Gli strumenti di cura, dal farmaco alla psicoterapia, necessitano d’altronde del filtro della parola Il personale medico-sanitario mette in atto, con maggiore o minore consapevolezza e frequenza, un uso strumentale della parola nella relazione con il paziente. Si tratta di seguire protocolli di cura che non prevedono molta flessibilità, dai quali si generano standardizzazioni. Questo è molto visibile in genere nei servizi ospedalieri dove la spersonalizzazione del paziente è necessaria per definire tempi di cura rapidi ed efficaci. Nel SerT, pur esistendo un inquadramento del paziente (la cartella clinica, il piano terapeutico, ecc…), non è possibile agire tali dispositivi di spersonalizzazione, fosse anche solo per la cronicità della patologia. Ma, tali dispositivi non cessano di agire. In situazione di équipe nessuno osa negare che l’approccio medico e quello sociale non possano in qualche modo integrarsi: gli stessi medici dirigenti spronano dall’alto tutto il personale alla costruzione condivisa dei percorsi di cura. Nel quotidiano le cose vanno in una direzioni diversa rispetto a quella auspicata in sede di équipe: chi pratica approcci e utilizza linguaggi diversi da quello medico viene isolato o allontanato progressivamente dalla vita complessiva del servizio. Spesso a costoro viene affidata la gestione di pazienti la cui diagnosi medica è incerta, solitamente quei casi che rientrano nella fascia del consumo problematico ed entrati in contatto con il SerT per problemi con la giustizia. Su di essi la presa del linguaggio medico è minima e, in prima battuta, risulta più efficace per l’aggancio, l’intervento dell’operatore psico sociale. L’ambiguità iniziale nella relazione con questi casi, si risolve con il passaggio alla medicalizzazione dell’intervento: avvio di terapie farmacologiche e costruzione di un piano terapeutico al quale è subordinato e facoltativo associare, in seconda battuta, un intervento di tipo psico sociale. Il medico interviene in tutte le fasi del caso, compresa quella in cui è assente, ossia l’accoglienza. Quest’ultima prassi, non rientra propriamente nel percorso di inquadramento diagnostico, ma si rivela, agli occhi dell’osservatore implicato, come azione strumentale messa in atto dal medico per portare il soggetto al suo cospetto. D’altra parte non è possibile aggirare, per un SerT, il compito istituzionale di fornire all’individuo che vi si presenti un inquadramento diagnostico di qualche tipo. Così come è raro trovarsi nell’ambulatorio di un medico del SerT e assistere ad una valutazione diagnostica per la quale l’uso di sostanze non sia considerato un comportamento problematico prefigurandosi come campanello d’allarme, o meglio sintomo, di quella malattia chiamata tossicodipendenza.
La clinica della parola nella cura del tossicodipendente
Abbiamo discusso come il SerT, con il suo modello integrato di intervento sia un contesto ideale per osservare in azione il potere medico nell’arginare i tentativi di altre discipline di uscire dai confini che ad essi le istituzioni della società medicalizzata hanno assegnato. Gli spazi di incertezza che la tossicodipendenza apre sul versante diagnostico vengono prontamente chiusi con l’affermazione di un discorso medico che soddisfa il bisogno sociale di controllo di quelle forme indefinite che minacciano non solo la salute del corpo, ma anche un ordine sociale che non può avere dubbi nel distinguere normale e patologico. Altri tipi di analisi che non marcano questa distinzione con chiarezza non sono accettate dalla medicina, ossia dalla società, se non nella versione rassicurante che marca i confini del patologico immunizzando ciò che è al di fuori di questi confini (Esposito 2006). L’ordine attuale del discorso approntato dalla medicina (Foucault 1969) è funzionale infatti ad una società che tende, a volte non riuscendoci, ad immunizzarsi da qualunque forma di sofferenza: compresa la paura del diverso. La tossicodipendenza, quando non si limita all’autodistruzione silenziosa del singolo, è malattia del comportamento sociale che mina le basi della convivenza, inserendosi a pieno titolo nelle patologie dalle quali immunizzarsi. La medicina è chiamata a svolgere questo ruolo con il suo sapere unico, gerarchicamente organizzato. Psicologi, assistenti sociali ed educatori possono collaborare allo svolgimento di questo compito, voluto e riconosciuto dalla società, accettando una posizione subalterna al potere medico e accettandone i codici che ne ordinano il discorso. Nell’epoca della progressiva medicalizzazione della vita di ognuno di noi, la medicina risolve le forme conflittuali che incontra sulla sua strada invadendo i territori della psiche e del mentale, dopo essersi appropriata da tempo dell’ambito corporeo. Nella psiche dell’individuo che incontra la malattia, la paura di non giungere a guarigione si attenua innanzi al potere salvifico di apparati di cura sempre più complessi. L’agire medico dotandosi di tecniche chirurgiche avanzate e farmacoterapie mirate che affrontano l’oggetto-malattia in modi sempre più sofisticati, ma ha bisogno oggi, per alcune patologie, di servirsi dell’ausilio di professionisti della relazione che introducano il soggetto-paziente nei luoghi dove questi possa essere osservato come oggetto di conoscenza e trattamento dal sapere medico. Questi professionisti della relazione impegnati sul terreno della clinica, divengono protesi e tecnologie in mano al potere medico. A questi professionisti è concesso praticare con il paziente l’utilizzo dello strumento della parola (psico-terapie e di sostegno educativo). Nei SerT, è visibile come il
potere medico possa avvalersi del supporto di operatori che rivendicano la loro diversità dichiarandosi agenti di de-medicalizzazione (educatori, psicologi e assistenti sociali), ma poco è visibile che essi non sono che il tassello mancante al discorso medico per affermare il proprio sapere a tutti i livelli del percorso di cura del tossicodipendente. In questo senso, si tratta per coloro che rivendicano l’esistenza di una clinica differente, di cogliere le trasformazioni nei dispositivi di controllo e coercizione messi in atto dalla medicina psichiatrica, fortemente coinvolta anche nell’ambito delle dipendenze. Medicalizzazione e de-medicalizzazione agiscono all’interno di una stessa logica (Mori 2009), integrandosi secondo le regole del biocapitalismo e della biopolitica dove gli apparati di produzione hanno sviluppato capacità di cooptare al loro interno quelli che Jurgen Habermas definisce la sfera dell’agire comunicativo, un tempo separata da quella dell’agire strumentale (Codeluppi 2008). A fronte di un sapere medico che mette insieme sintomi e comportamenti per costruire un oggetto che si presti ad essere osservato e trattato con i suoi strumenti di lavoro, non rimane che l’approccio analitico come via di fuga dalla dilagante medicalizzazione. Claude Olievenstein, psicoanalista di scuola lacaniana, propone nel campo della clinica delle tossicodipendenze alcune riflessioni originali, tutt’ora valide. In primo luogo distingue il tossicomane dal semplice consumatore ed a questo proposito afferma che: “il destino di chi ha un rapporto non patologico con le sostanze è molto diverso rispetto a quello del tossicomane” (Olievenstein 1984; 1987). Il comportamento patologico di chi si droga non è parte di una struttura di personalità ben definita; esso nasce in una dinamica in azione nella quale: “gli aspetti psicotici, nevrotici, perversi, maniaco – depressivi o altri, sono intrapercezioni (corsivo nel testo), gradini instabili in una turbolenza ben più complessa”(Olivenstein 1984). Pur vedendo nella “fase dello specchio infranto”, termine ripreso da J. Lacan, un tratto comune dell’infanzia di molti tossicomani da lui curati, Olievenstein non ritiene opportuno creare tipologie di personalità. Egli infatti preferisce salvaguardare l’originalità di ogni storia individuale portata dai suoi pazienti.
Quanto il sapere medico sia preoccupato della riparazione dell’io o del creare distinzioni tra consumo e dipendenza non è dato saperlo. Probabilmente la questione non lo interessa eccessivamente: oggi, nella cura della tossicodipendenza, si è troppo impegnati tutti nel compito di immunizzare la società da questa patologia per poter dedicare tempo e forze alla clinica del soggetto.
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